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lunedì 20 maggio 2019

I gas di scarico degli aerei danneggiano i polmoni



Immaginate di essere in campagna o in collina o in una zona silvestre, in un'area non antropizzata e fate caso al suono grave che, con costanza martellante, sovrasta il cinguettio degli uccellini o lo scroscio dei corsi d'acqua. Alzate gli occhi al cielo e, tra le nubi basse ancora sopravvissute, potrete discernere nei particolari un grosso aereo civile che rilascia una scia più o meno persistente. Quell'aviogetto sta volando a bassa quota ed a velocità ridotta, a causa della densità dell'aria. E' impegnato in un sorvolo a "quota cumuli", nell'ambito delle operazioni di "inseminazione igroscopica delle nubi basse". Si devono considerare tre fattori concomitanti che confermano che quel velivolo non sta incrociando ad altitudine di crociera (8/11000 metri). I tre fattori sono i seguenti: a) il rumore; b) il passaggio al di sotto o dentro i cumuli; c) la bassa velocità. Quest'ultimo elemento dipende dal fatto che, a quote prossime ai 1600 metri, l'aria comincia ad essere piuttosto densa, opponendo resistenza ai corpi che la attraversano. Giacché gli aeroplani per il trasporto passeggeri non sono progettati per raggiungere gli 800 Km/h (velocità di crociera) in aria non rarefatta, pena danni alla struttura, i piloti devono, giocoforza, portare al minimo la manetta.

Ho evidenziato una situazione che ormai è la norma, solo che in pochi la notano, ritenendo che tutto questo sia assolutamente normale. Cosa che non è: infatti i velivoli che percorrono i corridoi ad alta quota loro assegnati (solo sulla carta) non si vedono ad occhio nudo né se ne ode il transito. Al contrario, si è in grado di distinguere nei dettagli questi aeromobili, di leggerne addirittura il nome della compagnia, di valutarne la forma ed il numero di motori etc. Quanto descritto, è una dimostrazione empirica che le dichiarazioni delle autorità "competenti" sono false. Non si tratta di velivoli commerciali che, ad alta quota, generano scie di condensazione. Ergo quelle scie non sono formate da vapore acqueo.

In ogni caso, supponiamo che questi aeromobili non rilasciassero tracce visibili di sorta, il risultato non cambierebbe, visto che i carburanti N.A.T.O., additivati di sostanze chimiche neurotossiche, sono dannosi non solo per il nostro sistema nervoso, ma anche per i nostri polmoni (Ogni anno muoiono sette milioni di persone a causa dell'inquinamento atmosferico). Infatti un recente studio, condotto dall’Università di Berna, ha dimostrato l’azione nefasta delle polveri fini originate dai gas di scarico dei reattori aerei sulle cellule polmonari umane. I danni maggiori sono provocati dalle particelle prodotte, quando il reattore non funziona a pieno regime.



È ben noto che le polveri fini (PM 2.5 e PM 10) generate dai motori a scoppio delle automobili raggiungono i polmoni e compromettono la salute a lungo termine. Che ne è delle particelle (PM 2.5) provenienti dai motori degli aerei? Ricercatori guidati dalla Dott.ssa Marianne Geiser Kamber dell’Università di Berna, insieme con i colleghi del Laboratorio federale di prova dei materiali e di ricerca e della Scuola universitaria professionale del Nord Ovest della Svizzera (FHNW), hanno condotto esami con il modello di turbine più diffuso al mondo e sulle cellule polmonari umane. Secondo i risultati dello studio, pubblicati sulla rivista "Nature Communications Biology", l’effetto sulle cellule epiteliali dei bronchi delle particelle, derivanti dalla combustione del cherosene, è analogo a quello dei motori a benzina ed a gasolio. Sono soprattutto le particelle primarie (ossia emesse direttamente da una fonte) di fuliggine che possono danneggiare direttamente le cellule polmonari ed innescare reazioni infiammatorie.

I ricercatori hanno realizzato esperimenti con cherosene convenzionale e con biocarburante, composto accanto al cherosene di quasi un terzo di grassi animali e vegetali. Il secondo non è necessariamente migliore del carburante standard in termini di effetti sulle cellule polmonari.



Per lo studio, gli scienziati hanno impiegato la turbina CFM56-7B Turbofan, la più comune al mondo, su un banco di prova per simulare vari regimi, come quello al decollo, in salita o al minimo (quello che si verifica a bassa quota, n.d.r.). I gas di scarico sono stati convogliati in una camera di deposizione di aerosol che conteneva cellule epiteliali bronchiali umane.

Gli specialisti hanno esposto le cellule ai gas di scarico per un’ora: in questo modo hanno potuto saggiare, in condizioni realistiche, come le particelle fini si depositino sulle cellule polmonari e quali reazioni provochino. Tra queste ultime vi sono danni alle membrane cellulari e stress ossidativo, responsabile di un invecchiamento più rapido delle cellule e possibile fattore di insorgenza di neoplasie.

Le cellule polmonari hanno mostrato le reazioni più forti al cherosene convenzionale durante il funzionamento minimo del reattore. Questo, in un primo tempo, ha sorpreso gli esperti, poiché la quantità di polveri fini depositate sulle cellule era estremamente più contenuta che alla massima potenza. La qualità delle particelle prodotte tuttavia differisce durante il minimo di attività del reattore, il decollo o la salita. Quando il reattore funziona al minimo, si producono particelle con una composizione che scatena reazioni cellulari molto più forti, nonostante una dose inferiore, ha spiegato a Keystone-ATS la Geiser, sottolineando la rilevanza per la salute della qualità delle polveri e non solo della loro dose.

Per il biocarburante, la reazione cellulare più forte è stata osservata durante la simulazione del volo ascendente. Le cellule hanno in particolare prodotto più fattori infiammatori (citochine). «Queste reazioni riducono la capacità delle cellule delle vie respiratorie di reagire adeguatamente ad un successivo attacco virale o batterico», ha asserito la Geiser.

L’attenzione di questo studio si è concentrata sulle cosiddette particelle primarie, quelle cioè che vengono emesse direttamente durante la combustione del carburante, ha spiegato la Geiser. Con l’aumentare della distanza dalle turbine, le polveri primarie sono trasformate ed hanno effetti diversi sulla biologia dei bronchi.

Fonte: CDT.ch

Lo studio nel dettaglio: Non-volatile particle emissions from aircraft turbine engines at ground-idle induce oxidative stress in bronchial cells


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venerdì 9 settembre 2016

Nanoparticelle di ferro nell'encefalo e patologie neurodegenerative



Una recente ricerca pubblicata sui Proceedings of the national academy sciences (P.N.A.S.) collega l’inquinamento ambientale a danni neurologici. Lo studio, che individua tra le fonti di contaminazione gli impianti industriali e gli inceneritori, dimentica, però, la principale causa dell’avvelenamento, ossia il traffico aereo commerciale che di fatto è spesso collegato alle devastanti attività di biogeoingegneria clandestina alias scie chimiche (chemtrails). Insomma i ricercatori vedono il filo d’erba e non la foresta, ma il nesso tra particolato ultrafino ed affezioni neurodegenerative, nesso già evidenziato anni fa da vari scienziati a tutto tondo, come Russell Blaylock, è sempre più evidente ed indiscutibile.

Non solo cuore e polmoni: anche l'encefalo è a rischio a causa dell’inquinamento atmosferico. Una ricerca recentemente pubblicata sui Proceedings of the national academy sciences ha, infatti, identificato, per la prima volta, nei tessuti del cervello umano delle nanoparticelle di magnetite di origine industriale. Il materiale - spiegano gli autori dello studio - è un ossido del ferro con proprietà magnetiche prodotto dai processi di combustione delle centrali elettriche, degli inceneritori e di vari impianti industriali. All’interno del nostro organismo risulta estremamente tossico.

La presenza di magnetite nel cervello umano in realtà non è di per sé una novità. Da almeno venticinque anni, infatti, si sa che il nostro organismo può produrre micro-particelle magnetiche a partire dal ferro, impiegato nei normali processi metabolici. Il ruolo svolto dalla magnetite di origine biologica, però, non è chiaro. Il problema è che la magnetite causa un grave stress ossidativo sulle nostre cellule e la sua presenza è stata collegata allo sviluppo dell’Alzheimer (e di altre malattie neurodegenerative) ed alla formazione delle placche amiloidi che lo accompagnano.

Gli autori dello studio, un’équipe di ricerca internazionale coordinata dal fisico Barbara Maher della Lancaster University (Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord), ha deciso di verificare quante delle nanoparticelle di magnetite presenti nel cervello umano siano effettivamente di origine biologica, analizzando campioni di corteccia cerebrale provenienti da trentasette campioni.

Adoperando diversi tipi di tecniche di imaging, i ricercatori hanno verificato la struttura geometrica delle nanoparticelle di magnetite presenti nei campioni, scoprendo che la maggior parte è di forma sferica, particolare che, secondo gli esperti, suggerisce un’origine ambientale, non biologica. A confermare la provenienza esterna del materiale è anche la presenza di altre particelle metalliche che non vengono prodotte nell'organismo, come platino, nickel e cobalto. Ciò dimostra come gli inquinanti ambientali possano raggiungere il nostro sistema nervoso centrale con molta più facilità di quanto si ritenesse fino ad oggi.

La magnetite ambientale presente nell’encefalo supererebbe inoltre quella biologica con una proporzione di cento a uno: numeri elevatissimi che rendono ancor più preoccupante la scoperta. Il legame dell’ossido di ferro con l'Alzheimer ed altre patologie neurodegenerative non è ancora chiaro - sottolineano gli autori dell’indagine - e non si sa neanche a quali livelli di concentrazione andrebbe considerata pericolosa, ma i rischi non si possono sottovalutare. “Purtroppo si tratta di un fattore di rischio estremamente plausibile che rende necessario lo sviluppo di adeguate precauzioni”, ha spiegato la Maher. “I legislatori hanno già cercato di tenere conto di questi pericoli nelle attuali normative sull’inquinamento ambientale, ma evidentemente queste regole potrebbero avere bisogno di essere riviste”.

Fonte: Sciencemag.org


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sabato 12 marzo 2016

Aumento del tasso di mortalità: sotto accusa la geoingegneria clandestina



In questi ultimi anni è stato rilevato un incremento del tasso di mortalità: sorprende (ma neanche tanto) che gli indici più preoccupanti riguardino stati occidentali in cui, stando alla propaganda, le condizioni di vita sarebbero migliori grazie alle vaccinazioni, l’assistenza sanitaria e meraviglie simili. Si noti che il tasso di mortalità è più elevato in Italia, Grecia, Germania etc. piuttosto che in Bangladesh, considerato un paese “in via di sviluppo”.

E’ palese che le miscele di veleni somministrate ad ignare popolazioni del mondo occidentale, veleni che spaziano dagli organismi transgenici ad i mille inquinanti ambientali, in primis il nanoparticolato di metalli, polimeri e vetro delle scie chimiche, costituiscono la spiegazione dell’arcano. I picchi di Russia e Bielorussia sono probabilmente un’onda lunga dell’esplosione del reattore nucleare sito a Chernobyl, incidente occorso il 26 aprile 1986.

Precisiamo che il tasso di mortalità è il parametro che indica il numero medio annuo di decessi ogni 1.000 abitanti, rilevato a metà anno, anche noto come tasso generico di mortalità.

Riportiamo qualche valore del 2014 in ordine di incidenza dal più elevato al più basso:

Russia: 13,83
Bielorussia: 13,51
Germania: 11,29
Grecia: 11,00
Congo: 10,17
Italia: 10,10
Gran Bretagna: 9,34
Francia: 9,06
Spagna: 9,00
Stati Uniti: 8,15
Svizzera: 8,10
Aruba: 8,10
Cuba: 7,64
Cina: 7,44
Australia: 7,07
Brasile: 6,54
Albania: 6,47
Antigua e Barbuda: 5,70
Bangladesh: 5,07


Fonte: indexmundi.com


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martedì 19 gennaio 2016

Il sedicente Putin propone un rimedio peggiore del “male”



Siamo alle solite: si è conclusa il 12 dicembre 2015 la conferenza sul clima a Parigi, dove i “grandi” della Terra, con la consueta faccia di tolla, hanno finto di voler salvare il pianeta da un fantomatico riscaldamento globale da CO2, quando i disastri climatici sono causati proprio da chi simula di volerli contrastare, ossia il complesso militare-industriale, grazie alla cooperazione di infernali governi.

Non basta: alla sciagurata conferenza è spuntato il sedicente Putin con un’idea ingegnosa, basata sempre sulla mistificazione del global warming. Il colpo di genio è il seguente: usare nanotubi di carbonio nei processi produttivi, ufficialmente per migliorare la qualità e la durata di plastica, alluminio, acciaio etc. Una maggiore efficienza della produzione industriale porterebbe ad un decremento nelle emissioni di gas serra. In realtà la proposta è la classica polpetta avvelenata: le nanotecnologie hanno spesso dei risvolti dannosi, in particolare la diffusione nell’ambiente di nanotubi di carbonio è all’origine di patologie respiratorie. Non è tuttavia un caso se molti centri di ricerca magnificano le potenzialità dei nanotubi in oggetto: il carbonio, insieme con il silicio, è l’unico elemento che forma delle catene (si pensi al DNA), si adatta quindi a creare un’interfaccia organico-inorganico che è l’obiettivo saliente, sebbene non dichiarato, del criminale piano transumanista.


La Russia sta pensando fuori dagli schemi nel tentativo di contrastare i cosiddetti cambiamenti climatici. Alla conferenza di Parigi, i rappresentanti russi hanno annunciato l’intenzione di ricorrere alle nanotecnologie per ridurre le emissioni di gas serra. […] Come riferisce il quotidiano Sciencetimes.com, la Russia è il quinto più grande inquinatore al mondo, con la Cina che è al primo posto. La proposta si concentra sugli sforzi per ridurre le emissioni che coinvolgono cinque materiali: acciaio, cemento, alluminio, plastica e carta che potrebbero essere resi più leggeri, più resistenti ed efficienti grazie alla nanotecnologia in cui spiccano alcune società russe.

La “Rusnano”, ad esempio, è un’azienda che ultimamente ha ricevuto 10 bilioni di dollari di fondi da parte del governo di Mosca per la ricerca e l’applicazione delle nanotecnologie nella produzione dei materiali citati.

“I nanotubi di carbonio hanno dimostrato di rendere molto duro l’alluminio, la plastica conduttiva, di prolungare la durata delle batterie agli ioni di litio”, ha dichiarato il Dottor Anatoly Chubais, fondatore della Rusnano. “Con le nanotecnologie si potranno ridurre le emissioni di CO2 (sic!!!) e pensare agli scenari futuri con un nuovo approccio”.


Fonte: Segnidalcielo.it


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sabato 5 dicembre 2015

Celle solari che si autoriparano

Un articolo concernente celle solari che si autoriparano getta una luce (sinistra) sulle biotecnologie, una fetta importante delle operazioni di biogeoingegneria clandestina. Per un corretto inquadramento del tema, connesso ad un orribile scenario transumanista, si leggano “Nanotubi di carbonio trovati nelle vie aeree di bambini abitanti a Parigi” e “Cervelli superveloci con i nanotubi”. Ringraziamo l’amico Emanuele per la segnalazione.



Un annuncio che sembra davvero fantascienza è arrivato da alcuni ricercatori statunitensi che stanno creando un nuovo tipo di cella solare progettata per auto-ripararsi a partire da nanotubi di carbonio e DNA, come i sistemi naturali di fotosintesi nelle piante. Gli obiettivi sono i seguenti: aumentare la durata e ridurre i costi.

“Abbiamo creato sistemi di fotosintesi artificiale, usando nanomateriali ottici per la raccolta di energia solare che è poi convertita in energia elettrica”, ha detto Jong Hyun Choi, professore di Ingegneria meccanica presso la Purdue University (Indiana, Stati Uniti d’America). Il progetto sfrutta le insolite proprietà elettriche di strutture chiamate nanotubi di carbonio a parete singola, impiegandole come “fili molecolari che raccolgono la luce nelle celle”, ha spiegato Choi, il cui gruppo di ricerca ha sede presso il Centro di nanotecnologia del Purdue Discovery Park.

“Credo che il nostro approccio sia molto promettente per una futura applicazione commerciale, anche se siamo ancora in una fase di ricerca di base,” ha chiarito Choi.

Le celle fotoelettrochimiche convertono la luce solare in energia elettrica ed usano un elettrolita – un liquido che conduce elettricità – per il trasporto di elettroni, generando la corrente. Le cellule contengono coloranti che assorbono la luce. Questi pigmenti sono chiamati cromofori e sono molecole simili a quelle della clorofilla: essi si degradano a causa dell’esposizione alla luce solare. “Lo svantaggio critico di celle fotoelettrochimiche convenzionali è proprio questo degrado”, ha detto Choi. La nuova tecnologia supera questo problema come fa la natura: sostituisce i coloranti danneggiati con nuovi composti.

L’idea potrebbe rendere possibile un innovativo tipo di cella fotoelettrochimica che continua a funzionare a pieno regime a tempo indeterminato, almeno finché sono aggiunti nuovi cromofori.

I risultati sono stati illustrati in una presentazione del simposio denominato “Mechanical Engineering International Congress and Exhibition”. Il convegno si tenne a Vancouver nel novembre del 2011. Il concetto è stato anche delucidato in un articolo inserito sul sito web di SPIE, una società internazionale di ottica.



I nanotubi di carbonio funzionano come una piattaforma per ancorare filamenti di DNA. Il DNA è stato progettato per avere specifiche sequenze di blocchi chiamati nucleotidi, permettendo loro di riconoscere i cromofori e di legarsi ad essi. Quando i cromofori sono pronti per essere sostituiti, essi possono essere rimossi tramite processi chimici o con l’aggiunta di nuovi filamenti di DNA.

Due elementi sono fondamentali per la tecnologia al fine di imitare il meccanismo di auto-riparazione della natura: il riconoscimento molecolare e la metastabilità termodinamica o la capacità del sistema di essere smontato e rimontato in modo continuo.

La ricerca è una prosecuzione di un lavoro che Choi ha compiuto con i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology e delll’Università dell’Illinois. "La precedente ricerca ha usato i cromofori biologici prelevati da batteri. […] Tuttavia, servirsi di cromofori naturali è difficile; essi devono essere raccolti ed isolati dai batteri, un processo che sarebbe costoso da riprodurre su scala industriale. Così, invece di usare cromofori biologici, vogliamo usare quelli sintetici costituiti da coloranti definiti porfirine”.

Fonte: Peerates.org

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martedì 28 aprile 2015

Respirare la morte

Di recente alcune testate tedesche hanno riferito del problema costituito dalla BCPO, la broncopneumopatia ostruttiva, una malattia respiratoria che può essere assimilata alla bronchiolite costrittiva, l’’affezione dell’apparato respiratorio che non è causata né da virus né da batteri, ma dal nanoparticolato che ostruisce i bronchi. Questo particolato proviene per la maggior parte dalle attività di geoingegneria illegale.



Le gravi conseguenze per la salute dell’operazione geoingegneria clandestina alias scie chimiche, hanno ora ufficialmente un nome: "BPCO, ossia broncopneumopatia cronica ostruttiva..."

Come sappiamo, da decenni sono dispersi su scala globale nanoparticolato metallico, polimeri, solfuri e particelle di vetro. Sappiamo anche che l'inalazione di polveri ultrafini è estremamente pericolosa, anche se l'Agenzia federale (tedesca, n.d.t.) per l'ambiente ha censurato questa notizia.



Recentemente in Germania su NTV è stato pubblicato un interessante articolo concernente una nuova affezione denominata BCPO, ossia broncopneumapatia cronica ostruttiva. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) l'ha inserita nel catalogo delle nuove patologie, avvertendo che sarà una delle tre più comuni cause di morte al mondo entro il 2020. Per saperne di più leggi qui.

La verità è la seguente: molte persone accusano tosse convulsiva, respiro sibilante, dispnea, ostruzione delle vie respiratorie. Non bisogna stupirsi, considerate le dosi industriali di particolato diffuso nella biosfera. A meno che non intervenga un temporale con una copiosa pioggia a purificare l'aria, il cielo rimane avvolto da una coltre chimica duratura, da una nebbia che è creata deliberatamente dagli aerei.

L’O.M.S. si aspetta milioni di pazienti affetti da BCPO entro i prossimi sei anni, soprattutto fra gli anziani e tra i bambini.

Queste stime si basano su quello che si reputa essere l'attuale stato generale di salute della popolazione, sull'età media e sulll'incidenza dei problemi respiratori.



Articoli correlati:

- Bronchiolite costrittiva: impennata di casi tra i militari di ritorno da Iraq ed Afghanistan
- Le gravi conseguenze per la salute del programma di scie chimiche hanno ora ufficialmente un nome: 'BPCO, malattia diffusa sconosciuta'
- 'Broncopneumopatia'
- Inquinamento reale da polveri sottili e "normalizzatori" di Stato


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lunedì 9 giugno 2014

Epidemia di polmonite atipica nel Feltrino (articolo di Eleonora Scarton)


In provincia di Belluno si stanno diffondendoi focolai di una polmonite anomala, i cui sintomi sono per lo più quelli descritti dal Dottor Leonard Horowitz, il medico statunitense che ha coniato l’espressione “influenza chimica” per designare una varietà di sindromi provocate direttamente o indirettamente dalle irrorazioni. Le chemtrails, infatti, da un lato deprimono il sistema immunitario, rendendo l’organismo vulnerabile a molte patologie, dall’altro contengono o veicolano microorganismi all’origine di varie infezioni batteriche. Anche le sempre più frequenti micosi dipendono in gran parte dalla geoingegneria clandestina, poiché nei serbatoi degli aerei, dai cui carburanti provengono i filamenti, tendono a proliferare le spore fungine.

Una polmonite atipica ha colpito il Feltrino, insinuandosi nelle persone in maniera subdola. “Non tutte le polmoniti sono uguali - spiega il primario di Pneumologia dell'A.S.L. 2, Franco Maria Zambotto - quella classica è nota a tutti e si manifesta improvvisamente con tosse, malessere e febbre molto alta. Il medico, durante la visita, riesce a sentire rumori polmonari e così elabora la diagnosi che va confermata con una radiografia”.

In questi ultimi tempi, però, alla normale polmonite si è affiancata anche una forma "atipica" che quest'anno sembra avere conosciuto un picco particolare, causato dai forti sbalzi termici (sic). “In questo caso - prosegue Zambotto - le persone colpite manifestano malessere generale, dolori ossei e muscolari simili a quelli causati dall'influenza, tosse secca e non catarrosa, con febbre non sempre alta”.

Fonte: Il mattino


Articoli correlati:

- Bronchiolite costrittiva: impennata di casi tra i militari di ritorno da Iraq ed Afghanistan, 2011

- Il Dottor Leonard Horowitz: le scie chimiche sono all’origine dell’immunosoppressione, 2014

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lunedì 29 agosto 2011

Bronchiolite costrittiva: impennata di casi tra i militari di ritorno da Iraq ed Afghanistan (articolo di Ilaria Vacca)

L'articolo che proponiamo si incentra sull'insorgenza della bronchiolite costrittiva, una patologia respiratoria, fra i veterani statunitensi, di ritorno dai teatri di guerra in Medio Oriente. L'affezione è collegata all'inalazione di nanopolveri costituite da diossido di azoto (Nitrogen dioxide), biossido di zolfo etc. e siamo inclini a ritenere che non sia circoscritta ai reduci: sempre più spesso, infatti, tra i civili si rilevano disturbi e malattie (anche tumori) dell'apparato respiratorio che si spiegano, considerando la massiccia diffusione di inquinanti in nanoparticelle, attraverso le mortale operazioni di "bio-geoingegneria clandestina". Si tratta di una malattia confrontabile con le serie patologie riscontrate fra i soccorritori che, intervenuti sul luogo in cui erano state demolite le Torri gemelle il giorno 11 settembre 2001, respirarono micidiali polveri generate dalle esplosioni e dall’incendio. Anche il linfoma non Hodgkin, un tempo "appannaggio" dei partecipanti alle missioni di "pace", è putroppo oggi diagnosticato fra persone (giovani ed adulti) che non si sono mai recate nel Kosovo, in Iraq, in Afghanistan etc. La sardegna e la Liguria sono le regioni più colpite.

Uno studio condotto su ottanta soldati statunitensi, rientrati dal Medio Oriente, ha evidenziato che più della metà dei militari presentava una dispnea da sforzo al rientro. La biopsia polmonare ha mostrato che quasi tutti i soldati rientrati dalle missioni con problemi respiratori sono affetti da bronchiolite costrittiva, patologia molto rara in pazienti adulti in condizioni di buona salute, invece molto comune in pazienti con problemi reumatologici o trapiantati, probabilmente dipendente dall’inalazione di sostanze tossiche o dannose. Lo studio suggerisce quindi che esiste una stretta correlazione tra la bronchiolite costrittiva e la diminuzione delle prestazioni fisiche dei soldati che hanno prestato servizio in Medio Oriente.

Lo studio in questione, pubblicato sul New England Journal Of Medicine è stato condotto dal Medical Center della Vanderbilt University su un gruppo di ottanta soldati provenienti da Fort Campell, in Kentucky, tra il febbraio 2004 ed il dicembre 2006.

Questi veterani, rientrati dall’Iraq o dall’Afghanistan, presentavano un’inspiegabile dispnea da sforzo (non erano in grado di portare a termine il normale esercizio fisico previsto dagli esercizi militari, ossia due miglia di corsa). Molti di questi combattenti sono stati esposti alle sostanze tossiche presenti nell’aria in seguito all’incendio della miniera sulfurea di Mosul (Iraq) durante l’estate 2003, ma non tutti.

Di questi soldati quarantanove sono stati sottoposti ad una biopsia polmonare toracoscopica, oltre ai controlli cardiopolmonari (spirometria e tutti gli altri esami previsti dalle linee guida dell’American Thoracic Society). Per ben trentotto dei soldati sottoposti a biopsia, la diagnosi è stata di bronchiolite costrittiva. In seguito gli stessi sono stati sottoposti a tomografia computerizzata elicale (CT) per ulteriori accertamenti.

Quasi tutti i campioni delle biopsie hanno mostrato materiale polarizzabile corrispondente ad inalazione di polveri sottili, nonostante la maggior parte dei soldati non sia mai stato fumatore. Le biopsie hanno anche mostrato ispessimenti delle pareti arteriolari o occlusioni di arterie adiacenti, solitamente causate da inalazioni di sostanze tossiche.

L’età media del soldati che hanno preso parte a questo studio è di trentatré anni, tutte persone in buono stato di salute, non affetti da patologie o sintomatologie respiratorie. Sarebbe stato semplice imputare la patologia all’esposizione inalatoria dell’incendio della miniera, ma solo ventotto dei soldati esaminati ne sono stati interessati. Quasi tutti hanno riferito di aver respirato durante le tempeste di sabbia (tipiche della zona) e di essere stati esposti all’incenerimento di rifiuti solidi in pozzi bruciati. La bronchiolite costrittiva è caratterizzata da una lesione infiammatoria e fibrosante della parete dei bronchioli che ne riduce il calibro, causando un’alterazione del flusso aereo. La patologia è anche connessa all’esposizione inalatoria a diossido di azoto , biossido di zolfo, rifiuti inorganici, ceneri e butanedione (usato nella manifattura dei pop corn per i forni a microonde). Non di rado il suo decorso comporta la necessità di sottoporsi a trapianto di polmoni (sic).

Fonte: osservatoriomalattierare


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